Agostino Tulumello
Nato a Montedoro nel 1959, ha vissuto a Liege, attualmente vive e lavora a Montedoro.Ha frequentato l’Istituto Statale
d’ arte “F. Juvara” di san Cataldo,ha frequentato l’Accademia Reale delle Belle Arti di Liege in Belgio.
Gianni Garrera
ROMANZE SENZA PAROLE
ANATOMIA DEGLI ACCENTI E DEGLI APOSTROFI
A proposito delle partiture di Agostino Tulumello
In una poesia di Stefan George, Das Wort (1919), prediletta da Heidegger (Unterwegs zur Sprache, Pfullingen 1959, p. 159), si legge che nessuna cosa è dove la parola manca, pertanto dove manca la parola c’è il nulla. Questa è la definizione della musica senza parole: se la musica è dove manca la parola, la musica è nulla. Tulumello comincia da qui; presume che la parola nella musica sia annullata e che il nulla che di conseguenza si produce sia musicale e che la musica autonoma che si genera conservi tuttavia dei residui verbali, dal momento che la musica risiede nelle accentazioni, cioè negli accenti e negli apostrofi delle parole pur senza le parole corrispondenti.
Egli tratta di spiriti e accenti fluttuanti, come scrittura di accenti e apostrofi senza più le parole al cui servizio dovrebbero stare. Disegna gli accenti, i nastri di accenti gravi e acuti, senza le vocali da accentare, senza le parole, tramite una sorta di notazione mensurale, con legature e segni che indicano innalzamenti e abbassamenti di una melodia senza dare indicazione precisa di altezza e di durata, come una sorta di scrittura neumatica quasi a campo aperto, con sovrabbondanza di gambi e di code, oppure con catene di accenti circonflessi e di cediglie. In questo formicolio, le lineette oblique significano movimento ascendente e discendente, mentre quelle orizzontali indicherebbero che la direzione non ha alcun influsso. Rispetto a un alfabeto sono piuttosto segni supplementari, come punti, corone, alterazioni. Fondamentalmente è una sorta di ripresa della notazione chironomica, cioè un insieme di segni grafici che trascrivendo il gesto dei movimenti ascendenti e discendenti della mano serve a disegnare la pantomima dell’andamento di una melodia, solo che qui è qualcosa di più connaturato alla parola stessa e di più astratto, perché si tratta di un’ostensione assoluta e a oltranza di apostrofi e accenti.
Le partiture di Tulumello sono prima di tutto una scrittura enigmatica, del tutto amputata della lettera e concentrata sugli spiriti, cioè vengono distribuiti, moltiplicati, agitati e infittiti gli accenti o gli apostrofi senza più che tali segni siano al servizio di una parola.
Il bianco dello sfondo e la rigidità del pentagramma, antitetica alla flessuosità calligrafica di una scrittura, indicano che la dimensione vacua è attraversata da una griglia ed è in grado di coesistere nello stesso luogo del pentagramma e partecipare di riflesso del principio di rettitudine e direzionalità delle linee pentagrammate. L’ambito esplicitamente o implicitamente pentagrammato su cui scorre il nastro di un delicato vespaio di segni diacritici si affaccia sulla fermezza del pentagramma, capace di ignorare qualsiasi integrazione verbale. Il ruolo di segnavia attribuibile al pentagramma si trasmette all’assetto complessivo della pagina, come un binario o un solco in grado di orientare o polarizzare gli apostrofi soprastanti.
Tulumello aliena il verbo dalla sua pagina, eppure i vermetti dei suoi accenti conservano un accento che era potente se era in grado di condurre, con la sua apposizione, la congiunzione ‘e’ nella dimensione dell’essere, con la stessa potenza dell’accento del verbo essere senza però il verbo essere e l’essere, così come l’apostrofo rapportava l’articolo alla dimensione del concetto. Accento e apostrofo sono librati come lo spirito sulla lettera assente e hanno capacità e funzione quasi spiritica. Il lavoro nasce da una mutilazione originaria delle lettere per superfetazione degli accenti. Anche l’apostrofo è un’alterazione potente quanto un accento e si comprende che la musica è fatta di apostrofi e accenti, non di lettere. L’apostrofo proietta l’articolo mancante sull’omogeneità dell’assenza di sostantivi. L’apostrofo è una configurazione materiale rispetto all’immaterialità verso cui si protende. Così si fronteggiano l’assenza della lettera e il vuoto su cui si erge di regola l’apostrofo. Lo spazio a ridosso dell’apostrofo è semplice e puro, omogeneo e indeterminato e in quanto tale sarebbe capace di ventilare e di accogliere tutti i termini indifferentemente, come il campo universale in cui si possono disporre gli enti verbali. Questa è l’illazione sulla parola che la partitura innesta e disinnesta a ripetizione decorando la pagina con il puntinismo e il virgolismo di apostrofi e d’accenti. L’apostrofo minaccia questa potenzialità, sebbene sia privo sul momento di una natura determinata, senza più una figura peculiare o diplomatica.
L’apostrofo crea micro-intervalli o micro-lacune nel continuum, in bilico tra gli spazi vuoti. L’apostrofo, in questo senso, funziona da ostensorio della spiritosità degli accenti, delle elisioni, dei troncamenti o delle aferesi. Resta la funzione primaria: di ostentare un’assenza. La decorazione funziona da apostrofo musicale, nella sua sospensione, nel suo essere seme. Tutta la linea di quest’opera funge da articolazione dell’assenza sottostante, viene così apostrofato il vuoto. C’è la pura ventilazione visiva di accenti, a prescindere dalla parola, L’opera, per certi versi, è la fine dell’aspirazione alla parola degli apostrofi, che si acchiocciolano su se stessi, anzi, la musica si colloca proprio nel versante dove i vari orientamenti e filamenti degli accenti e degli apostrofi non sono più calamitati dalla frustrazione delle parole mancanti. Siamo con esattezza nel genere della romanza senza parole.
È una scrittura in cui vengono eliminate la sillabazione del contenuto, la moderazione della parola, rimangono solo dei nervetti, senza la carne e il sangue del logos. Per tradizione, già nei rapporti linguistici la consonante è sempre l’osso, mentre la vocale è la carne. Perciò l’articulus è inteso visivamente come membra del corpo della parola, secondo l’idea globale del corpo verbale, per l’analogia tra corpo umano e corpo verbale. Il linguaggio è un organismo articolato, composto di membra articolate nelle loro parti (articulus, artus e membrum), perché è un corpo che consta di parti anatomicamente e fisiologicamente differenziate, ed è noto che, secondo Sefer Yezirah II, 3, le lettere fondamentali sono fissate nella bocca in cinque luoghi, tra denti, lingua e palato e che apostrofi e accenti sono residui grafici delle parole, perciò pura notazione senza pronuncia o contenuto verbale.
Nelle partiture di Tulumello è emblematico proprio il punto di sutura, che attraverso l’articolazione dell’apostrofo o dell’accento dovrebbe connettere il visibile all’invisibile, il pronunciato all’impronunciato. L’apostrofo è il dentino di collegamento che serve come giuntura a legare insieme due realtà, ma qui rivela una funzione equivoca di disgiunzione. Si tratta di un principio organizzativo che associa la natura della carne della vocale e dell’osso della consonante al tendine o legamento dell’apostrofo. Il lavoro si rivela un’ininterrotta catena metaforica anche degli aspetti anatomici delle lettere. L’apostrofo è il nesso o il nervo di più potente articolazione di bilanciamento o sbilanciamento tra presenza e assenza, fino al rischio della biforcazione totale tra articolo e sostantivo. Secondo l’accezione anatomica, l’apostrofo ha la funzione di punto d’innervazione tra la presenza e l’assenza, tra la presenza dell’articolo e l’assenza del nome. L’antica funzione di biforcazione del lambda greco viene recuperata e assunta così dall’apostrofo. L’apostrofo dovrebbe legare insieme due cose, ma ormai documenta la crisi del richiamo al sostantivo, e insieme riconosce l’intelligenza suggestiva dell’assenza della parola, di modo che si crea una connessione con una voce non significativa (solo il nome e il verbo sono voci significative).
Gli apostrofi e gli accenti di queste partiture rinviano a ciò che non è designato né nominato. Ogni espressione effabile che voglia esprime l’ineffabile sarebbe deforme, nessun modo di scrittura coglie quest’essenza e si confonde con essa, e in questo senso resta impartecipabile e innominabile. Il verbo resta veramente nascosto nella partitura, immune da ogni contrazione e adeguatezza sensibile. L’apostrofo impiegato in maniera così assoluta indica qualcosa di più di un’elisione, perché è il testimone di quanto si sono polarizzate dalle realtà verbali assenti. Qui ciò che conta non è l’elisione della vocale dell’articolo determinativo, perché è un’elisione esuberante ed eminente, che serve a far sentire ciò che dovrebbe venire non ciò che è stato tolto; è un apostrofo pneumatico rivolto all’avvenire.
La funzione divaricante, cioè diabolica, dell’apostrofo si rivela in questo caso in cui gli apostrofi sono usati in modo assoluto, senza più alcuna funzione, come si fosse operata una scissione tra articolo e sostantivo che ha raggiunto proporzioni irreparabili. Le parole, che tutti questi accenti accentavano o che tutti questi apostrofi apostrofavano, sono annullate. Ci si trova alla presenza di un segno diacritico in esubero che assume la massima divergenza. La funzione amputante dell’apostrofo è condotta alle estreme conseguenze, come se avesse annichilito la relazione che avrebbe dovuto instaurare tra due lettere. Ma questa scrittura paramusicale fa dimenticare nel tono fiorito della sua decorazione la troncatura radicale procurata da questi apostrofi, che li ha scissi dalle parole e proiettati nel musicale puro.
L’apostrofo in sé, senza sillabe da apostrofare, è un segno trascendente che non ha più in sé alcun genere in cui possa essere contenuto, non elide più nulla. Questo carattere di ultimità è l’essenziale in un segno che è divenuto autonomo, perché non si esibisce più su una parola: è un apostrofo corporeo che regge un sostantivo incorporeo. Il quadro è un luogo illogico che rende visibile la formulazione, in apparenza, di proposizioni insensate, di antecedenti e conseguenti di un periodare composto ormai solo di una scrittura costante di segni diacritici. L’accento è divenuto più sensibile della vocale e l’apostrofo più importante dell’articolo, il loro disegno è l’unica cosa logica che c’è, ma è impredicabile, non è più dipendente dall’esistenza effettiva della realtà naturale di una parola. L’apostrofo allude a un articolo e regge una parola che trascende la coscienza.
La partizione degli ambiti della lingua, nell’atto di rendere inconcepibile l’unità del discorso attraverso una provvisoria delimitazione, trascende la lettura sensibile. L’enunciato non è visibile, risiede nel campo bianco del quadro, presumibilmente ai piedi del pentagramma. L’apostrofo ha per suo opposto la condizione del vacuo, regge un nulla, pertanto ormai, con le sue evoluzioni e spirali, regge un nesso illogico, perché il valore logico non ha più posto, cosicché un accento dà l’accento a un’insensatezza e ormai è postumo del sostantivo. La spiritualità formicolante della partitura è nell’apostrofo che è librato come lo Spirito sul pentagramma. L’apostrofo non suggerisce più il movimento di proiettarsi verso un nome, letteralmente ha perduto ogni carattere di annunciazione. Non esiste più ciò verso cui tende. Non aspira più nemmeno al significato perché il nome assente è diventato del tutto illusorio. Veramente al significato è totalmente estraneo esistere, l’ambito dei significati è libero, esente dall’esistenza. Abituati alle forme dei significati, Tulumello visualizza il solfeggio della mancanza di significato e della preoccupazione per un significato. L’apostrofo apostrofa all’infinito e ripetutamente l’inenunciato, apostrofabile all’infinito, in un continuo rinvio, oppure dimostra la propria capacità di moltiplicare le sfumature degli accenti mettendo in crisi l’univocità dell’eventuale logos da pronunciare. Ciò comporta l’apertura a un rinvio perpetuo di predicati. L’impossibilità di mettere l’accento su un termine implica per l’accento stesso l’affrancamento dal proprio ruolo, la liberazione dal proprio compito.
La pagina non è più logocentrica, supera la sudditanza verbale, sottraendosi al dominio del significato, aprendosi all’orizzonte contemplativo di una pronuncia insignificante. L’apostrofo è divenuto paradossale, una pura illazione. E dall’equivocità del suo profilo prende il valore assoluto, precedente tutti i nomi, perché l’apostrofo promuove se stesso a ideogramma. Viene apostrofato uno spazio, che non serve alcuna lettera e non veicola alcun nome, se non ammettendo un uso rappresentativo del linguaggio, in cui il nome o il sostantivo sono presenti in modo larvale nella singolarità della loro assenza. Forse l’apostrofo non serve più a evocare una parola, ma a revocarla o scongiurarla. Se, allora, la partitura e la notazione eludono il dominio del logos, potrebbe rivelarsi un’opera che scongiura la presenza o la venuta del logos, oppure specula sull’assenza del logos dal mondo, sulla mancata venuta o sull’assenza di una parola non ancora rivelata, che invano viene evocata e ventilata da una miriade di apostrofi e accenti, che ormai, come i festoni o le ghirlande di una fitta vegetazione, ha surrogato il testo.
In Tulumello ogni segno grafico è una notazione, anche l’uso del punto, che è il puntino della ‘i’ anziché il punto fermo. Il presente è un punto, in questo senso il puntino della ‘i’ ha un ruolo. Secondo il Symbolarium di Pavel Florenskij, lo zero dei nostri giorni si è sviluppato progressivamente nel corso dei secoli, in origine era scritto come un punto o un cerchietto minuscolo. Quest’antico ‘0’ rappresentava la fusione in un unico segno del simbolo grafico del punto e della lettera omicron, iniziale della parola greca ouden (nulla). Se la teoria pitagorica scorge nel punto un’unità, quella euclidea lo vede piuttosto come un nulla. L’unità e lo zero sono due concetti limite: tra presenza e assenza. Lo zero nascosto nel punto della ‘i’ è realtà grafica sospesa come un apostrofo o un accento, e appartiene agli spiriti librati sopra la parola, non ai punti fermi, al suolo, dell’interpunzione. Le indagini grafiche sull’amputazione della lettera accentata, con l’emanazione dell’accento, si ricordano della configurazione e dell’elevazione dell’apostrofo e chiariscono che ci si trova davanti a puntini della ‘i’ e non alla presenza di punti fermi.
Anche l’accento di ‘è’ non è più disposto a operare una sintesi fra soggetto e oggetto, non è copula e non ha funzione comunicativa. Altrimenti, la copula sarebbe un arto di congiunzione. La copula è priva di significato lessicale, addirittura per Aristotele non è un verbo (De interpretatione 3, 16b 19-25): non significa nulla, ma indica solo un’operazione di sintesi fra soggetto e predicato, infatti, l’essere, quando è copula, non è un verbo (De interpretazione 2, 20 b 1-2). Perché esiste un ‘è’ che non è opposto all’ ‘era’ né al ‘sarà’, si tratta dell’ ‘è’ della predicazione necessaria nei giudizi atemporali che indica ciò che è sempre e come tale al di fuori del tempo. Il suo accento ha un valore speciale e assoluto, e rappresenta l’accento ideale della musica assoluta, dove non conta il dato udibile, ma la pregnanza armonica. La funzione copulativa (operatrice di predicazione) è una sintesi predicativa atemporale, capace di predicare al di fuori dell’essere, trascendendo l’economia della lingua.
Aver innalzato la funzione di apostrofazione, attraverso un movimento analogo all’accentazione, causa l’accentazione dell’incomunicabilità più totale o l’incapacità per l’apostrofo di ricongiungersi con altre lettere. Pertanto la soluzione di evolversi in una nuova lettera, cioè in un apostrofo assoluto e seriale, serve a compensare la mancanza di un rapporto esterno. Ma l’assolutizzazione dell’apostrofo rivela un’originaria deficienza che rende vana, rispetto alle virtù di comunicazione, questo virtuosismo grafico, perché dà un’apertura sproposita e assurda alla ripetizione del segno. Infatti, porta con sé la disperazione di apostrofare il negativo, perché sorge dalla negazione progressiva della congiunzione e della sua funzione. È senza rapporto con un’altra parola e senza virtù congiungente in quanto è sorta da una sterilizzazione di una lettera generosa che era preposta alla congiunzione.
L’apostrofo sta su una soglia d’intensità grafica. Di regola dovrebbe fissare il significato, ma ora serve all’enunciazione dell’insignificante. L’apostrofo non ha più funzione servile, è finita la razionalità discorsiva. Quest’uso del segno allontana la grammatica dal senso comune e fa di un accento o di un apostrofo un segno estremo, spinto fino al proprio limite decorativo e ornamentale, perpetuato graficamente, perciò altamente ed esclusivamente musicale. L’accento è divenuto un simulacro, perché accentua, con il suo spirito, ancor di più il vuoto e l’assenza di parole. La stoltezza del segno analfabetico sostituisce la sapienza alfabetica del mondo, in questo senso la scrittura musicale è l’alternativa alla scrittura verbale, mortifica la ricchezza di spirito della grammatica per mezzo del ridondare minuto di una serie di ammiccamenti grafici.
D’altronde l’apostrofo è impronunciabile, non è un segno vocale, piuttosto un neuma musicale del tutto adiastematico e afono, ha la funzione di un’appoggiatura musicale, che richiede un’intenzione musicale e non una pronuncia vocale. Se vi sono lettere leggibili e lettere illeggibili, apostrofare a oltranza una pagina significa voler rendere una lettera pressoché impronunciabile. Non appoggiarsi a elementi fonici praticabili, significa rendere una realtà non pronunciabile né recitabile, eppure altamente musicale in quanto totalmente aliena dalla parola che l’ha originata.
L’apostrofo dimostra il superamento funzionale del discorso e l’intima origine della musica dall’annullamento della parola. Accenti e apostrofi sono fra gli elementi impredicabili, per di più ridotti da Tulumello a filamenti liberi e caudati. D’altronde isolare ciascun elemento da tutto il resto è un modo di distruggere il logos (Platone, Sofista 259e). È rimasto solo l’idoletto, ossia la rappresentazione grafica di un apostrofo rivoltato nell’aria. Se la serie di segni apostrofanti non determina dopo di sé alcuna parola, significa la regressione della lettera all’analfabetico, l’insediamento di una lettera che prescinde dalla grammatica e conferma l’assenza della Parola da quest’ambito. Forse questi sono apostrofi avanzati che hanno apostrofato le ultime parole del mondo oppure sono quelli spermatici, vaganti in attesa della parola che deve ancora venire, cioè della lettera promessa, cosicché apostrofo e accento sono in attesa dell’avvento della parola, perciò in attesa di un linguaggio nuovo. Attualmente l’accento batte su una parola estinta o collocata nell’aldilà. Viene così istituito il destino della grammatica negativa. Si ottiene quest’effetto proprio attraverso l’uso a oltranza degli apostrofi.
Se ci fosse mai una parola non dicibile, è con questi segni diacritici che si segnala la presenza invisibile di un’inintelligibilità e innominabilità. Prevale il segno non verbale. Di regola l’apostrofo avrebbe la funzione di portare alla parola, ma ora è affacciato su una pagina, dove non c’è la parola oppure dove ogni parola è diventata irraggiungibile. Pertanto non è un atto di denominazione. Pur mantenendo ancora un’inclinazione razionale, l’apostrofo è al servizio della musica e non della parola, tramite l’organizzazione di elementi grafici astratti che gravitano lungo la linea pentagrammata, a garanzia almeno di una conduzione lineare.
L’apostrofo è il tramite che consente di ventilare l’innominabile, è più atomo della parola e non richiede una pronuncia. L’accento precede la parola. L’inessenziale, cioè l’apostrofo, si offre alla presenza ossia all’evidenza. Ma è l’apostrofo che dovrebbe rendere possibile l’avvicinamento a un ente verbale. La sua innaturale, moltiplicata presenza nella pagina ha prevaricato la parola, occupando il posto della verità, nel luogo vuoto della verità. Il formicaio della sua notazione avviene in uno sfondo di assenza. Più esattamente è un apostrofo che non articola più niente, gli si sottrae il nome, che non può essere più, letteralmente, articolato, cosicché anche se caricata di apostrofi, è una pagina che non riesce a recuperare la parola. Eppure l’apostrofo, così infittito, filiforme, variato e colorato, resta in grado di attirare a sé un nome (per questo viene anche uncinato): regge ciò che non ha designazione né denominazione, forse anche una sostanza non linguistica; è l’articolo di una parola situata fuori della lingua, fuori dell’orizzonte della lingua. Viene mostrato che non tutta la parola è stata parlata. Più esattamente l’apostrofo opera come un superlativo, perché non pone l’accento sul rapporto con una parola, ma colloca tutto lo spazio vuoto a un livello superiore. L’apostrofo agisce pittoricamente come un suffisso grafico, ha un valore superlativo che gli è conferito dalla sua esposizione eminente, non congiunto a un sostantivo o a un verbo tende a formare un nesso pregnante con il vuoto circostante e intorno.
Nessun prefisso avrebbe potuto elevare la Parola promessa in modo da creare una tale aura di assenza, mediante un apostrofo che opera come un rafforzativo dell’articolo, provocando la trasformazione del linguaggio. Perciò l’apostrofo rientra tra i superlativi grafici, opera come un’acciaccatura musicale o un’appoggiatura radicale. Non è un apostrofo privativo, non è un accessorio che serve a indicare un nome che esprime una realtà definita, ma ha acquisito una forte autonomia. La contrazione della parola viene accentuata dalla presenza ostentata dell’apostrofo. Lo spazio silenzioso fra l’articolo e il suo nome viene colmato da una densità musicale notevole, perché non pronunciata, nonostante che sia preannunciata dalla tensione degli apostrofi che non lascia possibilità di dubbi sull’ombra di un sostantivo soggiacente, collocato in un piano di afasia e incomprensibilità. Si disegna una sorta di innografia grafica. L’apostrofo dovrebbe servire da slancio perché le cose visibili danno la misura di quelle invisibili. Questa è la grafia residua dell’assenza di Verbo, che ha surclassato completamente la realtà del sostantivo, mediante la fiorettatura degli accenti.